FILOSOFIA, LETTERATURA E VITA CIVILE: GIOVAN BATTISTA GELLI E IL VOLGARE

Anna Laura Puliafito

Universidad de Basilea

Suiza

Resumen:

Este trabajo se centra en Giovani Battista Gelli, una de las figuras principales de la Academia Florentina, y en sus posiciones teóricas acerca de la traduccción vernácula en general, y de Florencia en particular. La pregunta central se refiere a la posibilidad de reconocer un programa sistemático en la obra de Gelli o, al menos, la permanencia de algunos puntos temáticos, tanto en sus trabajos originales como en las traducciones de Simone Porzio, un prominente profesor de Aristóteles del Estudio Pisano.

Abstract

The paper focuses on Giovan Battista Gelli, one of the leading figures of the Accademia Fiorentina, and his theoretical issues about vernacular translation in general and Florentine vernacular translation in particular. The central question concerns the possibility of recognizing a systematic program in Gelli’s works, or, at least, the persistence of some thematic items, both in Gelli’s original works as well as in his translations of Simone Porzio, prominent Aristotelian professor of the Studio Pisano.

Nel 1548 Giovan Battista Gelli viene eletto console dell’Accademia Fiorentina. Ha cinquant’anni, proviene dal ceto mercantile fiorentino; da ragazzo, negli anni ’20, ha frequentato gli Orti Oricellari, e ha alle spalle una modesta attività di poeta (un’egloga celebrativa per Cosimo de’ Medici, del 1537, e alcune stanze per le nozze di Cosimo con Eleonora di Toledo, del 1539). Si è profilato all’interno dell’ormai tramontata (1541) Accademia degli Umidi con un trattato sull’Origine di Firenze, che sottolinea la discendenza per linea diretta della città e della lingua parlata dai suoi abitanti dagli Aramei, antichissima tribù ebraica. Ha composto anche la prima di due commedie, La sporta (1543), quasi ‘riscrittura’ dell’Aulularia – mentre una seconda commedia, Lo errore, seguirà nel 1556 – e ha pubblicato i dieci dialoghi del bottaio Giusto con la sua Anima che portano il titolo di Capricci del Bottaio (1546).[1]

A partire dal 1548 Gelli comincia una lunga serie di letture di Dante e Petrarca destinate alle riunioni in Accademia, fino quando, nel 1553, verrà incaricato ufficialmente della lettura dantesca dell’Inferno.[2] La sua attività di espositore delle due corone è inframezzata alla stesura di altri dieci dialoghi, dedicati questa volta ai sortilegi di Circe (questo il titolo del 1549) e ai tentativi – per lo più frustrati – di Ulisse di riportare alla forma umana i concittadini greci già trasformati in animali.[3] Il suo interesse per la lingua fiorentina e la volontà di vederne pienamente riconosciuta la dignità di lingua adeguata alle conversazioni di più alto rango portano Gelli a partecipare dapprima all’elaborazione di una riforma linguistica, progetto questo tuttavia abbandonato per le strutturali difficoltà incontrate, come viene dichiarato nel Ragionamento sopra le difficoltà di mettere in regole la nostra lingua pubblicato in premessa al trattatello di Pierfrancesco Giambullari De la lingua che si parla e scrive a Firenze (1551, more fiorentino).[4]

La difficoltà di un inquadramento sistematico del volgare fiorentino non incrina tuttavia le convinzioni del Gelli che si tratti di una lingua degna di essere sostenuta e divulgata misurandone le potenzialità su opere di indubbia dottrina, tradizionalmente riservate alle ‘grazie’ della lingua latina.

Anche – sebbene non solo – per questo motivo, come vedremo, il 1551 si presenta come l’anno del Gelli volgarizzatore: quattro volgarizzamenti pubblicati, più uno attribuibile a lui e restato manoscritto, tutte opere di un aristotelico alessandrinista napoletano di gran fama presso lo studio pisano. Di Simone Porzio, questo l’autore (1497-1554), Gelli traduce infatti il Trattato dei colori de gl’occhi e la Disputa sopra quella fanciulla della Magna, la quale visse due anni senza mangiare e senza bere, e, per altro verso, il trattatello Se l’huomo diventa buono o cattivo volontariamente e il Modo di orare christianamente.[5] A proposito di quest’ultimo testo, una sorta di «esposizione del Pater noster», il cui volgarizzamento va in stampa prima della pubblicazione dell’originale, è stato dimostrato come tanto la versione originale quanto quella gelliana, siano vicine non solo alla sensibilità del Beneficio di Christo,[6] ma anche, direttamente a quella di Juan de Valdès nel Dialogo de Doctrina Christiana (1529).[7] Si tratti o meno di «un’abilissima operazione ‘nicodemitica’»,[8] la singolare vicenda mostra la particolare convergenza di interessi tra questi due autori – Porzio e Gelli – pur per altro verso così distanti. Varrà dunque la pena di riflettere innanzi tutto

i)          su come Gelli giustifichi i volgarizzamenti realizzati nel quadro ideale dell’operazione di volgarizzamento in sé e di volgarizzamento in fiorentino in particolare;

ii)         se possa essere rintracciato nell’opera originale del Gelli, e in che termini, un programma di riflessione sistematica, o, quanto meno, se possa essere individuata la persistenza di nuclei tematici particolarmente rilevanti;

iii)        su come – o se – sia possibile inserire le traduzioni da Porzio nel quadro complessivo dell’opera gelliana, e se esistano motivi che possano accomunare, almeno parzialmente, la produzione personale dell’accademico fiorentino a quella dell’aristotelico napoletano.

La prima questione da affrontare è certamente quella della scelta linguistica.

Una costante della produzione gelliana va senz’altro individuata in un programma di impegno civile, organico rispetto al ruolo dominante di Cosimo nella Firenze di metà Cinquecento. Funzionalmente ad esso l’adozione del volgare ricopre un ruolo di primo piano. Sulla forma linguistica che tale volgare deve assumere va sottolineato che si tratta di un fiorentino ‘naturale’ radicalmente distinto dai moduli bembiani. Quasi rispondendo per contrasto alle caratteristiche di artificialità riconosciute da Dante al latino,[9] nel Ragionamento sulla lingua Gelli sottolinea la vitalità del volgare e dunque la sua adeguatezza a comunicare al meglio ogni aspetto dell’esperienza umana. Nel V ragionamento dei Capricci Gelli sottolinea anzi come la superiorità del latino come lingua di scienza non sia in realtà che il frutto dell’accorta politica culturale di Roma, quella stessa che Cosimo vorrebbe rinnovata sotto il giglio fiorentino. Al bottaio stupito che si possa esser «dotto senza sapere lingua latina o greca»[10] l’Anima risponde innanzi tutto che «non sono le lingue che fanno gli uomini dotti, ma le scienzie»; e il fatto che la lingua franca della scienza sia il latino, non dipende da una sua superiorità a priori, ma dalla saggia scelta dei Romani, che curarono di

[G:…] tradurre nella lingua loro di molte cose belle, acciocché chi desiderava intenderle fusse forzato a impararla, e così venisse a spargersi per tutto il mondo.

Infatti

[A: .…] mentre che e’ tennono l’imperio del mondo, ei la facevano ancora imparare a la maggior parte de’ loro sudditi quasi per forza [i.e. per legge].

Solo «l’inordinato amor proprio, e non della patria», cioè l’individuale volontà di emergere sugli altri, ha fatto sì che i Toscani preferissero «scrivere in grammatica» – dunque in latino – invece che nell’idioma vivo in uso, facendo così non diversamente da quei medici che usano nomi desueti solo per mostrarsi dotti.[11] In tal senso Gelli giudica fondamentale l’intervento dei Principi, definiti nella dedica a Cosimo della Circe «i veri simulacri e l’immagini di Dio», secondo la testimonianza di Plutarco:[12]

G: Tu giudichi adunque che il condurre le scienze nella nostra lingua sia bene eh?
A: Anzi affermo che noi non si possa dar cosa più utile né lodevole, perché la maggior parte de gli errori nascono da l’ignoranza. E doverebbono i principi attenderci, con ciò sia che sieno come padri de’ popoli: e al padre non s’appartiene solamente governare i figliuoli, ma insegnar loro e correggerli. E se non voglion far questo di tutte le cose, e’ doverebbon almanco farlo di quelle che sono necessarie.[13]

Su quali siano le «cose necessarie» Gelli, per bocca dell’Anima, non ha dubbi: si tratta «delle leggi, così le divine come le umane».

Il motivo ‘antiumanistico’ articolato sul troppo tempo dedicato all’apprendimento linguistico, si lega in questo caso al motivo religioso. Gli uomini sarebbero infatti

più amatori e difensori delle cose appartenenti alla religione cristiana, se le cominciassimo a leggere da putti, e di mano in mano si esercitassimo in quelle come fanno gli Ebrei![14] La qual cosa non si può fare, non le avendo ben tradotte in volgare e ben acconce.[15]

È intorno all’esempio degli Ebrei che Gelli sottolinea l’idea del volgare anche come lingua di culto, mettendo a nudo più che altrove l’ispirazione evangelica della sua posizione:

A: […] con quanta più reverenzia e attenzione si starebbe a gli ufici divini se s’intedesse quel ch’è dicono? […] il nostro leggere o cantare i salmi  – è infatti oggi, afferma l’Anima – simile a un gracchiare di putte e a un cinguettare di pappagalli.

Il motivo linguistico si lega nel ragionamento V dei Capricci all’invettiva contro il potere ecclesiastico, basato su interessi economici piuttosto che su una autorità di altro genere, se è vero che tutti i cristiani sono figli di Dio e che questa fondamentale dignità resta primaria anche rispetto al ruolo di ministri ricoperto dai sacerdoti e dal Papa.[16] L’invettiva trova il suo doppio nella serrata critica all’uso di ‘dottori’ e avvocati che

ci vogliono vendere le cose comuni; e per poterlo far meglio, hanno trovato questo bel ghiribizzo, che i contratti non si possano fare in volgare, ma solamente in quella loro bella grammatica, che la intendono poco eglino e manco gli altri. [17]

Al contrario tornerebbe a maggior utilità dei cittadini e maggior dignità della lingua stessa

il cominciare i principi e gli uomini grandi e qualificati a scrivere in questa lingua [i.e. il volgare fiorentino] le importantissime cose de’ governi degli stati, i maneggi de le guerre e gli altri negozi gravi delle faccende che da non molto indietro si scrivevano tutti in lingua latina.[18]

Se il fiorentino è in ogni caso il volgare che spicca sugli altri per la sua naturale dolcezza, esso è una lingua in trasformazione, migliorata nel tempo rispetto a quella delle tre corone e destinata a perfezionarsi ancor di più attraverso l’uso. Su quale sia questo uso non vi sono dubbi: non si tratta certamente dell’uso popolare «de’ plebei e delle donnicciole», ma di quello degli uomini «grandi e virtuosi», i soli, aggiunge appunto Gelli

che inalzano e fanno grandi le lingue, imperocché avendo sempre concetti nobili e alti, e trattando e maneggiando cose di gran momento, e ragionando bene spesso e discorrendo sopra quelle in pro e in contro, persuadendo e dissuadendo, accusando o lodando, e tal volta ancora ammonendo e insegnando, fanno le lingue loro [gloriose], onorate, ricche e leggiadre.[19]

Una parte molto rilevante nella diffusione e nel perfezionamento della lingua è esplicitamente affidata alle traduzioni, lo strumento primario per mezzo del quale i più «nobili e qualificati» tra i fiorentini potranno affinare le doti insite nel loro volgare. Il che significa per Gelli perfezionare il volgare tanto nella «forma» che nella «materia». Nel primo caso si tratta di «quel modo e quell’ordine» con il quale «son conteste e tessute insieme l’una parola con l’altra, che si chiama ordinariamente la costruzione»; nel secondo si tratta propriamente delle «parole» di cui la lingua è fatta, cioè delle specifiche scelte lessicali e terminologiche.[20]

Quanto alla traduzione, più volte Gelli ripete di intenderla come un semplice «rivestire di panni fiorentini» l’opera del Porzio, mantenendone l’ispirazione generale e, addirittura, la strategia dedicatoria: nel caso dell’An homo Gelli sceglie di dedicare lo scritto a Francesco Torelli, figlio di quel Lelio Torelli cui Porzio aveva offerto originariamente la propria opera;[21] nel caso del Trattato del colore degli occhi per allinearsi esplicitamente alla scelta dell’autore viene addirittura mantenuto lo stesso dedicatario – il cardinale di Mantova Ercole Gonzaga.[22]

Veniamo ora alla considerazione degli scritti originali del nostro traduttore. Senza dubbio la varietà di genere rende difficile una valutazione globale dei motivi ispiratori della sua opera. Mi sembra che un fortissimo legame possa essere certamente rintracciato tra le due opere più note, i Capricci e la Circe, anche per quanto riguarda le modalità allegoriche della finzione poetica messe in atto nei due casi.

Nei primi dieci ‘ragionamenti’ Gelli mette a confronto un artigiano fiorentino, Giusto, ormai giunto alla vecchiaia, con la propria Anima, allo scopo di svelargli il vero fine della sua esistenza e liberarlo con ciò stesso dal timore della morte. Gli ‘incontri’ si svolgono all’alba, in un’atmosfera ancora lontana dagli impegni del lavoro quotidiano, nella stanza di San Pier Maggiore del Bottaio, e i motivi di questa sorta di sdoppiamento dell’io – come il Bottaio stesso rileva in apertura[23]  – sono così giustificati dall’Anima:

A: Separerommi con la mia parte intellettiva e con la fantasia solamente, senza la quale non potrei intendere, lasciando in te tutte l’altre mie potenze: cioè la vegetativa perché tu viva, e la sensitiva perché tu senta; e il discorso e la memoria, acciò che tu possa, discorrendo mediante le cose che tu sai, dimandarmi e ragionare con esso meco.[24]

A ben guardare questa condizione di giustapposizione tra l’anima intellettiva e le forme inferiori rispecchia quella che si delinea nella Circe tra Ulisse, che, nuovamente libero, sta per lasciare l’isola della maga, e i greci ‘imbestialiti’ che egli invano cerca di convincere a tornare in patria con lui riconquistando la forma umana.[25] Ad essi, infatti, perché possano ‘ragionare’ su cosa sia loro desiderio fare, Circe concede che essi abbiano «quel medesimo discorso che essi avevano quando egli erano uomini» e così come furono trasformati in fiere, così possano tornare al loro «conoscimento di veri uomini».[26] Quali uomini in realtà essi fossero è indicato da una sorta di legge di analogia, per cui a ciascun tipo animale corrisponde il tipo umano che essi erano nella loro esperienza precedente. Così l’Ostrica e la Talpa, per esempio, danno voce rispettivamente a un pescatore e a un contadino, mentre la Cerva esprime il punto di vista di una donna, nella fattispecie moglie di un «filosofo eccellentissimo».[27] Il punto di vista espresso dagli animali non corrisponde dunque al pensiero noetico, ma è piuttosto l’espressione verbale di un esercizio razionale di base legato alle situazioni specifiche dettate dalla natura e all’opinione nata «da la esperienza e la cognizion sensitiva, la quale (secondo me) – come afferma espressamente il Cane nel Dialogo IX – supera di certezza tutte le altre».[28]

Nel permettere loro di confrontarsi con Ulisse, ciò che Circe non restituisce agli animali, ancorché dar loro l’uso della parola, è il libero arbitrio, quella libertà di farsi bruti o simili a Dio cui, nella dedica a Cosimo I, Gelli accennava seguendo le tracce del mito formulato da Pico nel celebre elogio della natura umana: alla sua ultima creatura, per la quale non ha più forme disponibili, Dio concede infatti, nel mito pichiano, di assumere liberamente la forma che vuole, lungo una scala che può spingere l’uomo in basso verso le cose del mondo, «per lor rea sorte o per lor mala elezione», o elevarlo al cielo, conducendolo alla «vera perfezione». Il nuovo ‘Pro[me]teo’ si fa così camaleonte, e l’incantesimo di Circe, allegoria della Materia, dà forma esteriore alle scelte di vita che l’uomo è chiamato a fare:

in potestà dell’uomo è stato liberamente posto il potersi eleggere quel modo nel quale più gli piace vivere e, quasi nuovo Prometeo,[29] trasformarsi in tutto quello che egli vuole, prendendo, a guisa di camaleonte, il color di tutte quelle cose a le quali egli più si avvicina con l’affetto; e finalmente farsi o terreno o divino, e a quello stato trapassare che a la elezione del libero voler suo piacerà più.[30]

È nel commento al sonetto petrarchesco «Io son dell’aspettar ormai sì vinto» che Gelli sottolinea come la limitazione della libertà metta addirittura «in discussione lo statuto ontologico» dell’uomo,[31] come è appunto il caso della prostrazione allo «sfrenato volere dell’amore»,

molto simile a quello che scrissero gli antichi secondo che recita Plutarco sotto la favola di Circe. La quale da loro per la sensualità figurata, dicono ch’ella con le sue lusinghe e con i suoi canti tirava gli uomini nel suo regno, dove poi li trasformava in varii animali; cioè toglieva loro il libero arbitrio, e a guisa di bestie gli guidava dove a lei pareva.[32]

La questione del libero arbitrio si mostra centrale dal punto di vista speculativo nella riflessione di Gelli, che d’altra parte, tanto nella riflessione teorica rispecchiata nei commenti a Dante e Petrarca che nell’esercizio pratico della letteratura testimoniato dai ragionamenti e dai dialoghi, si mostra strenuamente convinto del nesso strettissimo che intercede tra arte poetica e riflessione morale. In sintonia con l’atteggiamento che caratterizza l’Accademia Fiorentina, Gelli ritiene impossibile considerare la letteratura come puro diletto, e – come è stato fatto rilevare – fa procedere le considerazioni di poesia di pari passo con il commento dell’Etica Nicomachea (in particolare il VI libro)[33] facendo convergere arte ed etica nella facoltà cogitativa che presiede al giudizio e alla deliberazione.[34] Ora non c`è dubbio che delle tre forme di vita delineate da Aristotele – quella del godimento, quella politica e quella della contemplazione – [35] la scelta di Gelli si indirizzi verso la seconda, quella «vita civile»[36] rispetto alla quale tanto la Circe che i Capricci erano strumento di denuncia.[37] Certamente per la sua provenienza sociale e per la sua formazione culturale extrauniversitaria, ma anche per la sua convinzione profonda che l’elemento sensibile e materiale su cui si esercita il raziocinio sia un elemento fondamentale di quella forma specifica di conoscenza che è la conoscenza umana, Gelli si mostra strenuo sostenitore di un insegnamento morale trasmesso non tanto per principi quanto piuttosto per evocazione di esempi veri o verosimili, capaci di trasporre nell’incisività del dato individuale la rappresentazione dell’universale.[38]

Di fronte a queste esternazioni mi sembra fondamentale sottolineare ancora una volta negli scritti di Gelli il profondo intreccio della problematica religiosa con quella civile, sulla base di un concetto di giustizia pratico e politico, cui è possibile attingere solo attraverso un innalzamento morale che affonda nella dimensione materiale della vita, riscattandola però nel riconoscimento di un lume divino. Come simboleggiato nelle ultime pagine della Circe dalla curiosa preghiera dell’Elefante-Aglafemo, che inneggia all’uomo come «cosa meravigliosa», ma solo nel riconoscersi effetto del primo motore e nell’innalzare un’ode ad esso, cagione di tutte le cose, sembra riappropriarsi pienamente della propria dignità umana.[39]

Certamente sulla natura e la dignità dell’uomo è incentrato almeno uno dei volgarizzamenti di Porzio, quel trattato An homo bonus vel malus volens fiat che vuole opporsi tanto alla morale stoica che a quella platonica per sottolineare la natura radicalmente ancipite dell’uomo.[40] Proprio sulla base di questa connaturata ambiguità Porzio riconosce da un lato la necessità dell’atto volontario per mezzo del quale l’uomo razionale deve ordinare e sottoporre al controllo dell’intelletto le sue passioni; dall’altro l’incapacità umana di esercitare appieno questo controllo se non nell’ambito del riconoscimento del beneficio offerto dal sacrificio di Cristo, condizione necessaria per il recupero e il ‘risanamento’ dell’arbitrio stesso.[41]

Come è stato sottolineato dalla critica, la pubblicazione del trattatello e il suo immediato volgarizzamento si collocano in un momento particolarmente delicato della vita culturale e religiosa fiorentina, che passa sotto un più serrato controllo dell’Inquisizione, spingendo Cosimo a contenere le tendenze evangeliche presenti anche nell’ambito dell’Accademia.[42] Il volgarizzamento in questo senso sembra poter rispondere ad una duplice funzione: da un lato esso offre giustificazione filosofica di alto rango agli insegnamenti etico-civili che Gelli aveva riposto nelle sue opere letterarie e nelle letture di poesia (dantesca e petrarchesca) che spesso ne costituivano il materiale di riferimento; dall’altro potevano offrire un filtro per la protezione di dottrine di fronte alle pressioni della censura. Come si è detto, in questo stesso  senso muoveva del resto l’inversione – volgarizzamento prima, originale poi – nella pubblicazione del Modo di orare christianamente (per il quale rimando agli studi di Cesare Vasoli e di Eva Del Soldato); e in questa direzione sembra muovere la scelta di cassare il riferimento ai «teologi» tanto nella dedica che in chiusura del trattato, riportando l’intera argomentazione nell’ambito di un ragionamento basato esclusivamente sugli insegnamenti peripatetici.[43]. In almeno un caso Gelli sceglie inoltre di modulare l’affermazione di Porzio, con l’aggiunta di un avverbio che ne relativizza la portata, a proposito della possibilità dell’intelletto di operare separato dalle funzioni primarie dell’anima vegetativa e sensitiva. Ma su questo torneremo.

Il sostegno autoriale, se così si può dire, che Gelli cerca nell’operetta di Porzio è a sua volta da intendersi sia in senso filosofico-concettuale, sia in senso strettamente linguistico. Esso offre infatti un’occasione di affinamento della lingua fiorentina proprio su uno degli argomenti che al nostro accademico stanno più a cuore. Di fatto la traduzione può essere considerata nel complesso fedele, e mostra anzi grande attenzione nella trasposizione lessicale. Non così dal punto di vista della struttura del periodo – la ‘forma’ di cui si diceva. Gelli rivoluziona la scansione del periodo e l’uso della punteggiatura, trasformando in lunghi e pesanti periodi le ben scandite frasi latine, fino raggiungere in qualche passo nette cadute sul piano della comprensibilità.

Come esempio significativo vorrei proporre qui alcune brevi considerazioni sul capitolo III. Quod, tum Stoicorum, tum Platonis decreta, in aliquibus deficiant / Che e’ mancano in alcune cose così gli stoici come i platonici.

Il testo si sofferma a definire quale sia la natura dell’uomo, per sottolinearne, come si diceva, la natura essenzialmente ambigua e definire quindi l’atto etico come quello in cui l’habitus razionale riesce a temperare le passioni raggiungendo quella che viene definita forma stessa della virtù, cioè la prudenza.[44] La chiave per l’interpretazione della Circe che Gelli affidava al mito evocato nella dedica a Cosimo trova qui giustificazione nell’autorità dell’insegnamento aristotelico (Ethica Nicomachea X, 1177b 20-35), e lo spazio per l’intervento della grazia divina trova la propria giustificazione nell’ineluttabilità della componente sensitiva e passionale dell’attività razionale umana. In questo senso non risulta accettabile l’ideale stoico di atarassia – che concederebbe all’uomo la possibilità di distaccarsi autonomamente dagli impulsi della sua componente corporea; ma, in termini diametralmente opposti, non risulta accettabile nemmeno l’ideale platonico secondo cui la virtù è dono infuso dai cieli che occorre far riemergere dall’oscurità del sensibile. La dottrina aristotelica risponde invece pienamente al carattere di medietà umana:

Homo itaque ex anima ac corpore conflatus, cum non sit purus intellectus, nec simplex sensitivum, medii rationem inter utrumque retinet. Quare et actus eius proprius erit, tum in activis, tum in speculativis operatio media quaedam. Quinetiam partes eius altera ab altera vicissim afficientur, ratioque sensus naturam, sensus vero rationis interdum induet. […] Dicitur autem ratio sensus conditionem subire, et ut dicam sensificari […] //[45]

Tiene adunque lhuomo, essendo composto d’anima, & di corpo, & non essendo ne puro intelletto, ne semplice sensitivo, un certo mezzo infra l’uno & l’altro, per il che verra anchora a esser loperatione sua propia, cosi nelle cose attive, come nelle speculative, una certa operatione media, & oltre a di questo, saranno spesse volte anchor le sue parti alterate, & mescolate l’una con l’altra, vestendosi il senso, & pigliando alcuna volta la natura della ragione, & alcuna altra, la ragione quella del senso […]. Ma la ragione si chiama pigliar la condi-/tion del senso & in certo modo diventare lui […].[46]

Da notare, dal punto di vista della traduzione in quanto tale, la scelta di sdoppiare i termini in un’indiade che permette o di ribadire il significato del termine originario, o di ampliare il dominio semantico della soluzione lessicale scelta, operando una sorta di approssimazione graduale – gli esempi in questo senso sono molti già solo in questo capitolo: «intelligenze supreme & prime» (p. 27) per «mentes illas supremas» (p. 13); «in luogo di pedagogo e di maestro» (p. 27) per «est veluti pedagogus» (p. 14), «gli affetti & le passioni» (p. 31) per «vivit secundum affectus» (p.16); «deporle & scacciarle» (p. 38) per «deponere» (p. 20).

Da rilevare ancora la volontà di intervenire esplicando la posizione dell’autore, come nel caso in cui si afferma che le due ‘parti’ di cui l’uomo è composto non portano ad una mescolanza di parti frammentarie, ma piuttosto, in senso traslato, che ciascuna delle due componenti può via via avere la meglio sull’altra:

Caeterum etsi hominem duabus partibus constare dicamus, non est tamen credendum, eas sibi invicem esse permixtas et refractas: […] Sed integras esse unius animae facultates, ut propterea non vere quidam, sed proportione potius compositas esse dicendum sit. //

[…], ma qui si debbe anchora avvertire, che se bene lhuomo e composto di due parti, che non si ha per questo a credere, che elle sieno spezzate & mescolate minutamente insieme […] ma che le faculta siano dell’anima propria onde si debbe piu tosto dire  che elle siene composte & miste, per una certa proportione, & per una certa similitudine, che veramente, & realmente […].[47]

In questo caso sdoppiare il proportione dell’originale in una certa proporzione & una certa similitudine significa disambiguare il richiamo all’analogia e al significato traslato.

Un ultimo esempio che illustra da un lato la difficoltà di piegare il volgare alle flessioni dell’argomentazione; dall’altro la predisposizione del traduttore fedele, che tuttavia non rinuncia ad una funzione mediatrice e filtrante. Si tratta di insistere su quanto affermato nel De Anima (l. II), a proposito di «tristitia & laetitia» quali motori dell’agire umano, a riprova della strettissima connessione tra ragione intellettiva e sensitiva:

[…], atque ubi non est sensus, non dicitur homo. Quia intellectivum non est sine sensitivo & vegetali, in ipsis saltem mortalibus, veluti Philosophus iam citato loco dicit. Nec puto respondendum esse, intellectum non posse quidam citra sensitivum subsistere, quoad vitae perturbationem spectat, quoniam per sensum alimur, iudicamus, et necessaria ed avitam sumimus: posse tamen nos affectuum motu illo turbolento carere, puta iracondia, ac cupiditatis aestu. Siquidem haec responsio si satis perspicio seipsam agitat ac iugulat. Nacque si necessarius est potus ac cibus, necessariae quoque sunt perturbationes. //

[…], & dove non è senso, non si chiama huomo; non potendo essere l’intelletto, senza il senso & senza la vegetativa al manco ne’ mortali, come ne insegna il Filosofo nel medesimo loco, ma io non penso pero che sia da dire assolutamente, che l’intelletto non possa star senza il senso; ma solo per quanto si aspetta alla duratione, & al mantenimento della vita conciosia cosa che noi ci nutriamo mediante i sensi, & con quegli giudichiamo, & prendiamo tutto quello che ci è necessario a vivere, ma si bene che noi possiamo liberarci al tutto dai moti, di quelle passioni, che ci perturbono, come è lira, & lardore de gli appetiti, & delle voglie, ma questa risposta se io vegho bene / il vero, si spaccia & annulla da se stessa, imperoche se egli è necessario il mangiare & il bere, ei sono anchor necessarie le pertubationi, [oltre a di questo […].[48]

In questo caso la struttura avversativa dell’originale (intellectum non posse / nos posse tamen) si stempera nella complessità della costruzione per l’aggiunta dell’avverbio (assolutamente) la cui funzione è, ancora una volta, quella di prevenire l’eventualità di un riferimento pericoloso ai dubbi sulla sostenibilità filosofica dell’immortalità dell’anima.

 

Per valutare l’operazione di volgarizzamento del Gelli nel suo complesso, mi sembra vada rilevato innanzi tutto come esso sia da inserire in un programma di moralizzazione di Firenze, all’interno di una concezione che pone senz’altro l’ideale della vita attiva al di sopra della vita speculativa. In questa prospettiva Gelli sceglie di ‘divulgare’ il suo intervento e di parlare ai suoi concittadini «dotti» e non. Egli cerca così di accostare all’incisività della creazione letteraria che considera come importante strumento di insegnamento seguendo un’interpretazione dottrinale di Dante e Petrarca, l’offerta di un intervento filosofico magistrale reso – almeno nelle intenzioni – più facilmente comprensibile. Si intrecciano nella sua scelta suggestioni religiose e inclinazioni ‘antiumanistiche’, insieme ad una maggior predisposizione per l’insegnamento aristotelico piuttosto che per le grandi sintesi neoplatoniche, pur senza rinunciare, talvolta, ad una sorta di concordismo, soprattutto nei commenti.

L’Accademico fiorentino, intellettuale autodidatta si presenta così come interprete privilegiato di una letteratura che deve trovare autorità nella speculazione filosofica e di una filosofia che deve inserirsi organicamente nella vita etica – e per questo anche politica – della città.

Anna Laura Puliafito, 2.08.2011


[1] Gelli, Giovanni Battista Commedia di Giouan Batista Gelli Accademico Fiorentino chiamata la Sporta Florentiae, 1543; Id., Lo errore commedia del Gello, recitata alla cena che fece Ruberto di Filippo Pandolfini alla Compagnia de Fantastichi l’anno 1555 in Firenze, Di Fiorenza, 1556. Il Trattatello sull’origine di Firenze si legge in edizione moderna a cura di a cura di M. Barbi (Firenze 1894); Capricci del Gello, col dialogo dell’inuidia, & con la tauola nuouamente aggiunti, In Fiorenza, appresso il Doni, 1546; poi I capricci del bottaio di Giouanbatista Gelli. Ristampati nuouamente con alcuni che ui mancauano In Firenze, 1548 Per il tipografo, Lorenzo Torrentino.

[2] Le lezioni sono raccolte in edizione moderna da Negroni, cfr. Gelli, Giovan Battista, Lezioni petrarchesche, raccolte per cura di Carlo Negroni; con una lettera di S. Carlo Borromeo e una di Giosuè Carducci, Romagnoli, Bologna, 1884 (ora anche Commissione per i testi di lingua, Bologna, 1969); Id., Letture edite e inedite di Giovan Batista Gelli sopra la Commedia di Dante, raccolte per cura di Carlo Negroni, F.lli Bocca, Firenze, 1887. Sulle lezioni, cfr. Ellero, Maria Pia, Aristotele tra Dante e Petrarca: la ricezione della Poetica nelle lezioni di Giambattista Gelli all’Accademia Fiorentina, in «Bruniana & Campanelliana», xiii, 2, 2007, pp. 463-476.

[3] La Circe di Giouanbatista Gelli Accademico Fiorentino, In Firenze, appresso Lorenzo Torrentino impressor ducale, 1549 . Per una presentazione e bibliografia in proposito rimando a Puliafito, Anna Laura, Ostriche e talpe. A proposito della Circe di Giovan Battista Gelli, in «Versant. Rivista svizzera delle letterature romanze», 55:2 (2008), pp. 35-46 e Ead., Volgarizzamento e propaganda:Giovan Battista Gelli e l’Accademia Fiorentina, in Mecenati, artisti e pubblico nel Rinascimento. Atti del convegno internazionale (Chianciano-Pienza, 20- 23 luglio 2009), a cura di L. Secchi Tarugi, Firenze, Cesati, 2011, pp. Xx-yy.

[4] Pierfrancesco Giambullari fiorentino De la lingua che si parla & scriue in Firenze. Et vno dialogo di Giouan Batista Gelli sopra la difficultà dello ordinare detta lingua, In Firenze, [Lorenzo Torrentino], [1551]. Si tratta della «prima grammatica di un autore toscano dopo le Regole quattrocentesche», come si legge in Migliorini, Bruno, Storia della Lingua italiana, Bompiani, Milano, 2004 (ed. orig. 1958), pp. 323 et infra. Le tre principali opere del Gelli si leggono ora in Gelli, Giovan Battista, Dialoghi. I capricci del bottaio. La Circe. Ragionamento sulla lingua, a cura di R. Tissoni, Laterza, Bari, 1967 (d’ora in poi citati rispettivamente come Capricci (R1-10), Circe (C1-10), Ragionamento). Va segnalata la pubblicazione all’Indice sia dei Capricci sia della Circe, ripettivamente nel 1554 e nel 1590, cfr. Rozzo, Ugo, La letteratura italiana negli «indici» del Cinquecento, Forum, Udine, 2005, pp. 29; 101-102; 116; 270.

[5] Per la ricostruzione sommaria della vita e dell’opera del Gelli, cfr. Del Soldato, Eva, Introduzione a Porzio, Simone, An homo bonus vel malus volens fiat, con il volgarizzamento di Giovan Battista Gelli. A cura di E. Del Soldato, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2005, pp.  xxxiii-xxxiv e il Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 53, Istituto dell’enciclopedia italiana, Roma, 1999, ad vocem.

[6] Benedetto da Mantova –Flaminio, Marcantonio, Il Beneficio di Cristo. A cura di S. Caponetto, Claudiana, Torino, 19912. Sull’evangelismo italiano cfr. Simoncelli, Paolo, Evangelismo italiano del Cinquecento. Questione religiosa e nicodemismo politico, Istituto Italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma, 1979. Su Gelli e le discussioni nell’ambito dell’Accademia Fiorentina cfr. Vasoli, Cesare, Tra Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Juan Valdés: Note su Simone Porzio, in «Rivista italiana della Filosofia», n.s, lvi, 4 (2001), pp. 561-607; Perrone Compagni, Vittoria, Cose di filosofia si possono dire in volgare. Il programma culturale di Giambattista Gelli, in Il volgare come lingua di cultura dal Trecento al Cinquecento. Atti del Convengo internazionale, Mantova, 18-20 ottobre 2001. A cura di A. Calzona, F. P. Fiore, A. Tenenti, C. Vasoli, Olschki, Firenze, 2003, pp. 301-337.

[7] Cfr. Vasoli, Cesare, op. cit., p. 600.

[8] Ivi, p. 601.

[9] Cfr. De Vulgari eloquentia, I.

[10] Capricci, R5, p. 55, dove si afferma anche: «non ho mai sentitito che si possa essere savio in volgare, ma pazzo sì bene».

[11] Capricci, R5, p. 64.

[12] Capricci, p. 146 e Circe, D3, p. 183.

[13] Capricci, R5, p. 67.

[14] Segue una lode agli ebrei che sanno tutti « così ben parlare delle cose della legge loro» di contro ai cristiani «che insegnon leggere a i loro figlioli o in su le lettere di mercanzia o in su certe leggende da non poter impararvisi su cosa alcuna», ibid.

[15] Ibid.

[16] Capricci, R5 p. 70.

[17] Capricci, R5, p. 69. Continua: «[di qui nascono mille inganni] / A: E per questo mi credo io che lo faccino: onde ti voglio / dir questo, che noi non ci possiamo manco dolere de’ sacerdoti e de gli avvocati, che si farebbono i sudditi di quei principi che volessin vender loro l’acqua e il sole» (ivi, pp. 69-70.

[18] Ragionamento, p. 316.

[19] Ibid.

[20] Ivi, p. 317.

[21] Cfr. Gelli, Giovan Battista, An homo cit., p. 7.

[22] Ivi, p. 5. Cfr. Trattato del colore degli occhi. Dello eccellentissimo filosofo M. Simone Portio napoletano. Allo illustrissimo & Reverendissimo Cardinale di Mantova. Tradotto in volgare per Giovan Batista Gelli, In Fiorenza, Appresso Lorenzo Torrentino, 1551.

[23] «A: […] Sappi, Giusto, che io sono l’anima tua / G: Come, l’anima mia? / A: L’anima tua, sì; e quella per la quale tu sei uomo./ G: O come può essere questo? Non sono l’anima mia io? / A: No, ché altra cosa sei tu, e altra è l’anima tua, e altra Giusto bottaio da San Pier Maggiore […]/ G:O chi sarà adunque questo Giusto?/ A: Tutt’a due noi assieme; imperò che né il corpo né l’anima è l’uomo, ma quello composto che risulta da tutt’e due. E vedi che quando l’anima è separata dal corpo, e’ non si chiama più anima, ma un cadavero, a modo de’ latini, o veramente un morto, a modo de’ volgari: sì che tu parlavi dianzi bene, quando tu dicevi che ero mezzo fuori di te», Capricci, R1, p. 11.

[24] Capricci, R1, p. 16.

[25] Un ulteriore segno forte del legame esplicito e strettissimo tra Capricci e Circe è la riflessione da parte dell’Anima sulla «infelicità» della sorte umana in termini puramente naturali, cfr. Capricci, R2, p. 20: «G: E come dimostri tu, che egli sarebbe più infelice de gli altri animali, se egli non aspettasse meglior vita che questa? / A: Perché in questa nasce egli molto sgraziato, ignudo, senza casa, senza saper parlare, senza aver che mangiare, se egli non se lo procaccia lavorando. […] Dove gli altri animali nascono vestiti, chi d’una cosa e chi d’un’altra, hanno le loro case chi sotterra, chi ne’ boschi e chi ne’ fiumi; e la terra produce loro, senza ce vi abbino a durare fatica alcuna, tutti i loro bisogni. E qual testimonio in questo vuoi tu più chiaro che quel di Plinio? il quale considerando tutto s’adirò tanto con la natura, che egli la chiamò madre de gli animali e matrigna dell’uomo»; e cfr. Circe, D1, pp. 153; 160; Plinio, Naturalis Historia, viii.42; Puliafito, Anna Laura, Ostriche e talpe cit., p.00.

[26] Circe, D1, p. 150.

[27] Cfr. Circe, D1 e D5.

[28] Circe, D9, p. 268.

[29] La lezione originaria pichiana, è però «proteo», cfr. Pico della Mirandola, Giovanni, Oratio de dignitate hominis. Testo latino a fronte, Studio Tesi, Pordenone, 1994, pp. 7.

[30] Circe, p. 145. Per una succinta analisi del testo pichiano cfr. Ciliberto, Michele, Il Rinascimento a Firenze: figure e motivi, in Id., Pensare per contrari. Disincanto e utopia nel Rinascimento, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2005, pp. 71-206, in part. pp. 95-104. Cfr. anche Puliafito, Anna Laura, Ostriche e talpe cit., p. xxx.

[31] Ellero, Maria Pia, op. cit., p. 475.

[32] Gelli, Giovan Battista, Lezioni petrarchesche cit., p. 18.

[33] Ellero, Maria Pia, op. cit., p. 466. Cfr. Eth. Nic., 1139b15 sgg.

[34] Base di refiremento è sempre il testo della Ellero (p. 466).

[35] Eth. Nic. I, 5, 1095 b 15.

[36] Cfr. Ellero, Maria Pia, op. cit., p. 466, che fa riferimento all’Ethica commentata da Donato Acciaiuoli, cfr. Aristotelis Stagiritae peripateticorum principis Ethicorum ad Nicomachum libri decem, Ioanne Argiropylo interprete, nuper recogniti & cum Donati Acciaioli Florentini viri doctissimi commentariis castigatissimis nunc primum in lucem editi, Venetiis, in officina Lucaeantonii Iuntae, 1535.

[37] Cfr. Perrone Compagni, Vittoria, op. cit., p. 00.

[38] cfr. Ellero, Maria Pia, op. cit., p. 473; per il commento della commedia si parla addirittura di un «aristotele visualizzato e per immagini» (ivi, p. 467); parimenti di Petrarca «traslitterato verbum ad verbum nel tecnicismo filosofico»(ivi, p. 470). Da non sottovalutare in tal senso anche la rilevanza dell’appello al ruolo della memoria.

[39] Circe, D10, pp. 287-88: «E.: O che bella cosa, o che cosa miracolosa è l’uomo! […] E io, perché mi pare che mi detti la natura che si convenga a l’uomo, rivolgandomi a quel primo Motore dell’universo, il quale, essendo cagione di tutte le cose, conviene ancor che sia prima e principal cagione di quello che è seguito di me, e che avendo io finalmente conosciuto la imperfezione di tutte l’altre creature e la perfezione della natura umana, sia tornato uomo, gli rendo infinite grazie. E perché io non posso dimostramegli in alcun altro modo grato, se non cantando in parte, e per quanto si estendono le forze mie, le lodi sue, prego te Ulisse, stando alquanto fermo, con divoto silenzio, mentre io canto questo santissimo hymno, onori ancor tu quella prima Cagion donde deriva ogni altro nostro bene. Oda questo hymno l’universa natura del mondo:

Tacete, selve, e voi, venti, riposatevi, mentre io canto il Motor primo del meraviglioso e bello ordine dell’universo:
Io canto la prima Cagione di tutte le cose corruttibili e incorruttibili;
Quella la quale ha ponderato la terra nel mezzo di questi cieli;
Quella la quale ha sparso sopra di lei le acque dolci per alimento de’mortali;
Quella la quale ha ordinato tante varie specie di creature per servizio dell’uomo;
Quella che gli ha dato l’intelletto perché egli abbia cognizion di lei e la volontà perché egli possa amarla:/
O forze mie, laudate quella meco.
Accordatevi con letizia dell’animo mio, rallegrandovi meco nel gaudio della mente mia.
O dote dell’anima mia, cantate meco devotamente la prima e universal Cagione di tutte le Cagioni.
Accordatevi insieme, lume dell’intelletto mio e libertà della volontà mia, a cantare le lodi sue.
L’uomo, animal tuo, o Motore eterno senza fine e senza principio, è quello che canta oggi le lodi tue;
E con queste forze sue desidera che a te sia sempre gloria e onore.

U.: Questa cognizione della prima Cagion di questo universo non avevi tu mentre tu vivevi in quel corpo di fiera.
A.: No: ma subito che fui tornato uomo la senti’ nascere nella mente mia, come quasi una proprietà mia naturale; anzi, per dir meglio, tornarmela […] ».

[40] Del Soldato, Eva, Introduzione cit., p. xiv, dove si sottolinea quanto Porzio fosse famoso anche in materia di predestinazione e fato sul soggetto riguardante il libero arbitrio.

[41] Cfr. ivi, p. xiii, da Caponetto, Salvatore, La riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Claudiana, Torino, 19972, p. 353 sgg.

[42] Cfr. Vasoli, Cesare, op. cit., p. zzz.

[43] Del Soldato, Eva, Introduzione cit., p. xiii; Porzio, Simone, An homo cit., pp. 67, 140. Va comunque segnalato che un terzo riferimento ai teologi viene invece mantenuto, laddove nel capitolo XIII si sottolinea la distanza tra l’opinione dei teologi e la dottrina peripatetica, ivi, p. 106.

[44] Ivi, p. 28.

[45] Porzio, Simone, An homo cit., p. 13 (corsivo mio qui et infra). E segue: «Quare Aristoteles inquit decimo Ethicorum, actionem humanam mixtam esse: atque quoniam operatio intellectus ipsius speculativus fere simplex est, eam hominis naturam superare, ac Diis similem effici censet: ut viceversa cum sensuum affectibus atque illicebris irretitur, ferinum fieri, brutisque adsimilem.», ivi, p. 16.

[46] Ivi, pp. 25-26.

[47] Ivi, rispettivamente p. 15 e p. 30.

[48] Ivi, rispettivamente p. 19 e pp. 37-38.